di Pino Cinquegrana (Antropologo)

Scrive Corrado Alvaro: non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno quando i torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantella triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale…Né le pecore né i buoi né i porci neri appartengono al pastore. Sono del signore. Dall’altro lato questa miserevole condizione di vita, scrive Vincenzo Padula (1973:610): fino a otto anni il fanciullo calabrese va dietro l’asino, alla pecora e alla troia; a nove il padre gli pone in mano la zappa e la pala, in spalla la corba lo conduce seco al lavoro e lo mette in condizioni di guadagnarsi42 centesimi al giorno. A 15 il suo salario cresce e ne ha 67; a 20 non tratta più la zappettina, ma la grossa zappa, e con rompersi l’arco della schiena da mano a sera a 85 centesimi e la minestra, o 125 senza minestra. Parafrasando Saverio Strati, diciamo che il figlio del contadino eredita la zappa come il principe la cora. Contro le ingiustizie sociali, le false promesse dei governi, al povero contadine non rimane altro che fuggire, emigrare nelle Americhe. Una fuga silenziosa che con rammarico Giovanni Pascoli, durante un suo discorso ai giovani studenti dell’Università di Messina, nel 1906, parla di “vergogna”, “dolore” e “rimorso” per una nazione incapace di intervenire a favore di quanti si gettano quotidianamente nelle braccia di chi ha un premio di tanto a capo di bestiame. E queste mandrie di uomini vanno ad imbarcarsi cantando e ridendo sgangheratamente perché non hanno denaro per ubriacarsi di vino e si ubriacano di canto e di riso. Così, nel 1874, il giornale calabrese “Il Pungolo” descriveva la partenza di migliaia di sventurati che dai porti di Pizzo Calabro, Napoli e Genova prima, e quello di Messina poi, si imbarcavano verso un altrove della speranza.

Si parte per sentirsi liberi. I soldi per l’imbarco saranno l’ultimo debito con l’usuraio che chiuderanno entro l’anno: pastori, massari, briganti, sognano l’America come terra di lavoro e momento del loro riscatto umano – ma anche perché nel nuovo muondo, come scrive Saverio Strati – la gente si saluta con un semplice buon giorno, buona sera … non si deve dire: vostro servo o vossignoria (Giuseppe Neri, 1994:69). Rimanere al paese, scrive Vincenzo Franco è come vivere una terra chi pari scumunicata.

Uomini e donne portano le loro braccia al servizio di altre nazioni come dirà Mastro Bruno di la Serra a cercare allo straniero lavuru e pani. D’altronde, sottolinea Fortunato Seminara la povera gente ha sempre emigrato per il pane.

Giunto a destinazione, l’emigrato è preso da un ripensare alla propria terra che il De Amicis così descrive questo momento: quando misi piede a terra, mi voltai a guardare una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che mi avesse portato fin là. Esso non era più che un tratto nero sull’orizzonte del fiume smisurato, la si vedeva la bandiera che sventolava sotto il primo raggio di sole d’America, come ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figli raminghi. L’America diverrà terra di riscatto sociale ed economico, terra da dove arriverà al paese ogni cosa: coltelli, rasoi, forbici, strumenti agricoli, aghi dalla cruna dorata e, soprattutto green back (dollari). Non mancano notizie di morte e di amori segreti. Giusa, nel romanzo Emigranti di Francesco Perri piange il suo Peppe morto all’estero e, in ginocchio difronte al padre fa vedere il ventre di donna gravida, alla cui constatazione Rocco Blefari (padre di Giusa) getta la scure gridando nella mia casa mancava il pane ma non è mai mancato l’onore.

Divenire picciotto d’America è il tema affrontato dallo scrittore reggino Antonio Margariti nel suo racconto America! America! In cui giovani spaesati, appena sbarcati dal lungo viaggio si vedono adescati pr entrare a fare parte di gangs delinquenziali (è l’epoca di Joe Petrosino che stravolgerà i processi investigativi della mala d’America). Ma l’America sarà essenzialmente il luogo dove purificare, cambiare e annullare la condizione dell’emigrato che al paese sarebbe stata segnata per sempre sottolineando in letteratura che we are in the new Country. We speak English here. We are not peasents here.  Un percorso letterario storico-sociale che da qui a poco entrerà nelle università americane come disciplina letteratura Calabro-Canadese.

Corrado Alvaro
Saverio Strati
Antonio Margariti
4 pensiero su “Il sogno Americano seconda parte”
  1. Excelente artículo. Y muy a tono con los tiempos que estamos viviendo. Por otra parte quisiera señalar que este año se cumplen 530 años en que Cristóbal Colón arriba al nuevo mundo, lo cual marcó una nueva, era en el mundo de las migraciones, La soñada América,

  2. Esta es una patética página de la historia de Calabria llena de dolor, miseria intensa e injusticia, qie explica muchas cosas de los sentimientos diversos que existen en el Sur sobre la Unficacion de Italia en 1861. Sin embargo, todavía estás heridas sociales no han sido superadas del todo, siguen siendo un reto para la Republica y los políticos.

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