Nel 1906, il medico tedesco Alois Alzheimer scrisse un articolo su una donna, August Dieter, che all’età di 51 anni fu ricoverata in ospedale in quanto manifestava una perdita di memoria molto severa. Questo è quello che generalmente consideriamo il primo caso di Alzheimer scientificamente documentato, e si trattava di una donna.

Facciamo un salto di 120 anni e oggi sappiamo che più di 50 milioni di persone nel mondo soffrono di Alzheimer, e che quasi due terzi di loro sono donne. Inoltre, e’ noto che, oltre all’età avanzata, essere donna è probabilmente il secondo fattore di rischio piu’ importante per lo sviluppo della malattia di Alzheimer.
E’ importante notare che siamo a conoscenza questi aspetti peculiari della malattia da un po’ di tempo, e che di solito li attribuiamo al semplice fatto che le donne tendono a vivere più a lungo degli uomini. Tuttavia, recentemente la validità di questa teoria è stata messa in discussione.
Perché allora le donne sono maggiormente a rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer?
Questo fatto ha a che fare con la genetica (il materiale che ereditiamo dai nostri genitori)?
Oppure è legato alle differenze ormonali?
Ci sono differenze biologiche nell’invecchiamento delle donne rispetto agli uomini?
Ci sono dei fattori o comportamenti nello stile di vita specificamente legati alle donne?
Tutte queste sono domande molto importanti, che se trovassero una risposta potrebbero contribuire non solo a risolvere questo mistero medico, ma soprattutto ci aiuterebbero a trovare migliori misure preventive e magari strategie terapeutiche pensate appositamente per le donne.
Ecco alcuni dati recenti riguardanti le donne e la malattia di Alzheimer.

Le donne cognitivamente sane mostrano una maggiore resilienza e una memoria migliore rispetto agli uomini con l’avanzare dell’età. Tuttavia, se sviluppano la malattia, esse sperimentano un declino cognitivo più rapido, una riduzione più rapida del volume di alcune aree del cervello legate alla memoria e, in generale, una forma più aggressiva della malattia.
Dopo i 65 anni, le donne hanno una probabilità su 6 di sviluppare la malattia di Alzheimer, rispetto a una probabilità di uno su 11 per gli uomini.
La diversa composizione ormonale tra donne e uomini è stata per anni l’ipotesi principale per la differenza di rischio di Alzheimer tra i due sessi. Tuttavia, finora non sono state prodotte prove conclusive e il dibattito è ancora aperto. Ad esempio, i risultati della terapia sostitutiva con estrogeni dopo i 65 anni sono stati contrastanti, con esiti sia positivi che negativi.

Una questione ancora aperta è se la menopausa possa essere considerata il punto di svolta che rende alcune donne più vulnerabili. In altre parole, è possibile che in una donna la menopausa modifichi il cervello e il modo in cui esso reagisce a fattori esterni o interni? Una possibilità è che, poiché gli estrogeni possono contribuire a regolare la capacità del cervello di produrre energia, una riduzione dei livelli di estrogeni potrebbe creare un deficit del carburante necessario per una corretta funzione cerebrale e cognitiva.
La ricerca genetica ha recentemente offerto nuove idee su questo argomento. L’analisi di oltre 8.000 persone per una variante di un gene (ovvero un frammento di DNA) responsabile della produzione di una molecola chiamata apolipoproteina E-4 (apoE4), nota per aumentare il rischio di Alzheimer, ha dimostrato che le donne con una sola copia di questo gene hanno circa il doppio delle probabilità di sviluppare la malattia rispetto alle donne che non hanno l’apoE4. Al contrario, il rischio per gli uomini con una sola copia di apoE4 è solo minimamente aumentato.

Nuove ricerche stanno ora facendo luce anche sul ruolo dei cromosomi sessuali. Le cellule femminili contengono un cromosoma X attivo, ereditato da un genitore, mentre l’altro è prevalentemente silente. Al contrario, le cellule maschili contengono solo cromosomi X materni e Y paterni. Il cromosoma X è sempre attivo e ricchissimo di geni (frammenti di DNA) importanti per la funzione e l’integrità del cervello, con un segmento coinvolto anche nel mantenimento della pulizia cellulare e nella protezione dall’accumulo di materiale indesiderato come le proteine tau e beta-amiloide.

Potrebbe essere questo il motivo della differenza?
Sebbene le ragioni esatte di questa differenza siano ancora sconosciute, la ricerca medico-biologica ha finalmente iniziato a prestare attenzione a questo importante aspetto del rischio di malattia, investendo sempre di più in nuovi studi sperimentali e clinici.
Per concludere vorrei fare una rifessione su questo argomento cosi attuale e importante. Essere consapevoli e riconoscere questa “disuguaglianza” dovrebbe contribuire allo sviluppo di strategie preventive e diagnostiche più mirate, e a un migliore accesso a risorse sanitarie più adeguate per la salute del cervello delle donne.